La Cassazione sull’uso di Facebook per chi è agli arresti domiciliari, un limite alla dignità umana o un giusto strumento investigativo?

 La vicenda è oramai nota, per i  giudici della Suprema corte,  gli arresti domiciliari vanno sostituiti con il carcere se la persona che ha usufruito del beneficio chatta su Facebook. 

La Suprema Corte  con  la sentenza 37151/2010,  stabilisce  che il divieto di avere rapporti con persone diverse dai familiari conviventi si estende fino a comprendere tutte le comunicazioni con terzi sia vocali sia attraverso internet.

In sé la Sentenza  non ci dice granchè di nuovo, se non che, essendo oramai Facebook uno strumento di comunicazione parificato a molti altri strumenti quali il telefono etc,  il divieto di avere contatti con altri soggetti irrogato in sede di applicazione della misura cautelare domiciliare può ben comprendere anche i rapporti che si possono intrattenere via Facebook o via altri strumenti di comunicazione .

Sin qui nulla di strano se non fosse che la limitazione all’uso di Fcebook o di altri social network potrebbe incidere anche sulla tutela costituzionale di un soggetto che pur coinvolto in un procedimento penale è pur sempre un cittadino garantito dalla nostra Costituzione .

Bisogna ricordare che la recente giurisprudenza ha ben chiarito che la trasgressione degli obblighi imposti in sede di applicazione della misura domiciliari rende necessaria la revoca della misura e la custodia in carcere solo se l’attività dell’indagato  sia in grado di ledere il principio di offensività canonizzato dall’art 25 della Costituzione. 

In pratica occorre vedere se il soggetto, al di là del tipo di reato attribuitogli, stia veramente usando gli strumenti di comunicazione per comunicare con gli affiliati all’organizzazione criminale e se tale uso sia indice di pericolosità.

Dire infatti che l’utilizzo di facebook sia in grado a priori di rendere “pericoloso” l’uso degli strumenti di accesso a internet da parte di un soggetto imputato equivale a dire  che internet in quanto strumento in grado di far entrare in contatto un individuo con il mondo esterno sia in sé da proibire.

Verrebbe così delineata una responsabilità «per il modo di essere dell’autore» probabilmente  lesiva dei principi di offensività e della responsabilità penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost.

Andrebbe  quindi analizzato approfonditamente l’uso effettivo che gli indagati hanno fatto di Facebook, ma sul punto  la Cassazione ( diversamente da recenti pronunce nelle quali a mio avviso aveva giudicato anche nel fatto) ovviamente si astiene e  nell’enunciare il principio di diritto rinvia correttamente al giudice di Caltagirone per verificare se e come Facebook sia stato usato dagli indagati e  per comprendere  se le modalità di comunicazione abbiano effettivamente violato le prescrizioni imposte in sede di applicazione della misura cautelare.

Ora però la domanda sorge spontanea,  a meno che infatti non risulti evidente che tramite la modificazione degli status di Facebook, oppure tramite l’inserimento di foto gli indagati stessero mandando comunicazioni agli affiliati esterni, come è possibile considerare Facebook uno strumento di comunicazione vietato per chi è agli arresti domiciliari tout court?

L’unico modo di dimostrare che vi sia stata una comunicazione “lesiva” da parte degli indagati è quella di conservare la cronologia  della  chat di Facebook ed estrapolare le  conversazioni per cosi dire proibite, a meno che non si voglia ritenere che le comunicazioni “pubbliche” su Facebook siano da considerarsi in sé pericolose,  il che a questo punto potrebbe anche divenire  preoccupante per le ricadute in termini di libera espressione del nostro pensiero ( anche se si è sottoposti ad una misura cautelare) .

Ma se la chat non è stata conservata?

Gli inquirenti saranno in grado di dimostrare, senza aver sottoposto  ad  intercettazioni telematiche la chat di Facebook ( che non è dato sapere se sia stata disposta, ma sulla quale essendo facebook posizionata all’estero nutro forti dubbi) che la stessa  Facebook sia stata usata “pericolosamente” dagli indagati?.

  Non sarebbe stato forse  meglio, invece di pensare alla revoca degli arresti domiciliari e cosi rendere noto a tutto il mondo l’uso da parte degli indagati  di facebook investendo del fatto la Cassazione, sottoporre ad intercettazione telematica la chat di Facebook e scoprire che cosi, invece di comunicare il proprio status al mondo telematico, la chat non era invece uno strumento di comunicazione con gli appartenenti all’organizzazione criminale?

In questo modo gli inquirenti avrebbero evitato la sgradevole sensazione di trovarci di fronte ad una limitazione della libertà costituzionale dell’esercizio del libero pensiero e della tutela della dignità umana ed avrebbero anche “levato” le castagne dal fuoco del GIP che dovrà decidere sulla revoca della misura in  assenza di intercettazioni dovendo cosi  spiegare come gli aggiornamenti di status di Facebook o l’inserimento di foto siano in grado di “creare” pericolo alla collettività.

Fulvio Sarzana

www.fulviosarzana.it
Studio Legale Roma Sarzana & Associati
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